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08/01 2023
Attualità Salute

Nessuno si salva da solo

— Marina Lauro

s. f. [dal lat. solitudo -dĭnis, der. di solus «solo»]. – 1. La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura.

Ecco la prima definizione che troviamo nel dizionario Treccani alla parola solitudine.

Chissà perché, da quando nasciamo, questo sostantivo richiama a qualcosa di negativo; il fatto di essere soli o di sentirci soli in una società come la nostra non è considerato un atteggiamento positivo. Siamo esseri sociali, come direbbero gli esperti, fatti per stare in gruppo: due sedie ai tavolini fuori dai bar, due biglietti del cinema, cena per due, camere doppie negli hotel, confezioni con due hamburger, eccetera. Viviamo in un mondo pensato per due persone... o per tante persone insieme, ma non per le persone singole.

Una scrittrice che amo tantissimo, Margaret Mazzantini, in uno dei suoi più celebri romanzi mette i protagonisti proprio davanti a questo dilemma morale: Essere soli o non essere soli:

conforto o condanna? L'altro è un vincolo o una risorsa?

Lavoro in ospedale da un po' di tempo, e davanti a questa domanda non posso non chiedermi chi o cosa fa la differenza per le persone, all'interno di un processo di cura. Nella vita di tutti i giorni forse non è necessario porsi questa domanda; le cose accadono, c'è chi si sposa e chi vive da solo ed è felice nel mondo. Quando c'è la malattia però tutto cambia; che sia cronica o acuta, essere malati condiziona il normale svolgimento della vita. Ed è proprio qui che mi chiedo se le persone attorno a noi sono risorse, oppure se a volte ci condannano ad azioni o emozioni che non vorremmo. Sono vincoli? Forse da soli si riesce meglio nel proprio percorso? L'antico detto "Da soli si fa più veloce, ma insieme si va più lontano" è corretto?


E' proprio mentre sono immersa in questi pensieri che vedo arrivare la persona che occuperà la seconda sedia di questo tavolino al sole. Infermiera, 30 anni, solare e molto competente. Gli hanno diagnosticato un anno fa la sclerosi multipla. Ci siamo conosciute sul lavoro, e ora che si è trasferita nuovamente nella sua città natale mi manca immensamente. Forse non le ho mai confessato che, oltre ad ammirare la sua professionalità, resto incantata dalla sua capacità di essere resiliente, di attraversare le difficoltà della vita con un passo certo e deciso.

La abbraccio, le sorrido e arrivo subito al dunque; mi conosce e sa che non sono una persona dalle mezze misure. "Nel tuo percorso di malattia, da quando ti hanno confermato la diagnosi, come ti sei salvata dai momenti difficili?". Parte così la mia domanda, che dà seguito alla storia; una storia difficile, ma che dentro di sé sprigiona una forza incredibile.

Lei mi racconta del giorno in cui ha scoperto la malattia; mi parla della paura e della sua reazione di immobilità davanti a una diagnosi così complessa. "Quel giorno mi hanno salvato il mio ragazzo e mia sorella, che sono venuti a prendermi in ospedale e sono stati con me; se non avessi avuto loro non avrei davvero saputo come fare". Mi parla dell'importanza dell'altro; amici, parenti e conoscenti con una sola caratteristica necessaria: saper ascoltare.

"Mi ha aiutata tanto sapere di poter contare su persone pronte non solo a chiedermi come stavo, ma soprattutto ad aspettare e ad accogliere la mia risposta. Non è scontato. In un percorso come il mio impari a selezionare; non tutti ti sono di aiuto".

Sorridiamo, e mentre mi appunto le sue riflessioni mi viene in mente una scena che abbiamo vissuto in reparto. Una paziente di cui entrambe ci siamo occupate è in dimissione, e nel ringraziarci mi dice: "Mi saluti anche la collega che era con lei ieri, quella con gli occhiali, bionda... Se non ci fosse stata il giorno in cui sono arrivata con la diagnosi, sarei stata persa".

E' a quel punto che le faccio la domanda che è nella mia mente da sempre. "Ma secondo te, ci possiamo salvare da soli?". Non mi rispondi... Ma mi racconti che in tutta questa strada che hai fatto, il supporto delle persone che ti vogliono bene è stato davvero importante. Mi parli delle tue persone del cuore come risorse, e mai come vincoli. Mi dici anche una cosa importante: che in una malattia cronica le persone che abbiamo accanto camminano insieme a noi; ci si racconta, ci si sfoga e si cercano insieme anche rimandi positivi.

Perché alla fine prendersi cura (di sé stessi, ma anche degli altri) non è altro che un modo per non essere soli in un cammino, facile o difficile che sia, come quello della malattia.

Quindi alla fine no, nessuno si salva da solo. Me lo dici, sottovoce. E io sono d'accordo con te.

Articolo tratto dal magazine Blister, storie dal Policlinico per curare l'attesa

 

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