
Part(or)ire. Racconto di una ginecologa
Tre e cinquantacinque. Lascio alla collega l’ultima ecografia della giornata ed esco furtiva dall’ambulatorio, correndo per le scale che salgono verso la sala parto. Sono in ritardo, ma ho da salutare una paziente prima di prendere il treno delle cinque che mi riporterà a casa per il fine settimana.
La data per il parto era prevista a fine settembre, tra poco più di un mese, e invece questo bimbo non ha voglia di aspettare. Tant'è che la mamma e il papà non hanno ancora fatto in tempo a mettersi d’accordo sul nome. Li avevo visti proprio due giorni fa, per un controllo veloce, giusto per assicurarmi che tutto andasse bene: poi avanti con la paziente successiva. Avevo una lista chilometrica di pance da smaltire prima di sera, ero reduce da un recente turno di notte, ero stanca. Li avevo salutati forse un po' sbrigativa: va tutto bene, ci vediamo di nuovo tra due settimane. Sara mi aveva abbracciata sull’uscio della porta, nonostante la pancia: mio papà è morto ieri, non ha fatto in tempo a conoscere il suo primo nipote.
Ieri sera Sara si è girata tra le lenzuola del letto e si è scoperta bagnata di un liquido strano. Ha svegliato il marito e ha dovuto convincerlo ad accompagnarla in ospedale, perché lui non era così sicuro di mettersi in auto nel cuore della notte. Il medico del pronto soccorso l’ha visitata, ha rotto il sacco, le ha detto, la ricovero. E’ iniziato il travaglio, suo figlio nascerà prima del tempo, ha aggiunto. Poi è arrivata l’alba e il travaglio sembrava essersi arrestato, ma ormai Sara era già sdraiata nel letto della sala parto.
Qualche ora fa, in pausa pranzo, ho rubato una mela dalla borsa della mia tutor e sono corsa a trovarla: le contrazioni erano ripartite. Mi ha chiesto la peridurale. E’ ancora presto, Sara, rischiamo che il travaglio si fermi del tutto. Torno alle ecografie del pomeriggio, ci vediamo più tardi. E mentre la sonda e la mia mano viaggiavano sul mare di gel spalmato sui pancioni sdraiati al mio fianco, in un angolo della mia testa continuavo a ripercorrere ogni istante della visita di due giorni fa. Non un segnale, non un indizio di quel travaglio prematuro.
Ora torno da Sara, in sala parto. Schiudo piano la porta, prima di entrare cerco l’orologio appeso alla parete: il treno per Roma parte tra poco più di un’ora. Sposto lo sguardo al centro della stanza: l’ostetrica è di fronte a due gambe che puntano verso il soffitto, illuminate dalla lampada scialitica. Sembrava non voler partire mai, questo travaglio, poi è iniziato tutto di un colpo. Sara ha iniziato a spingere cinque minuti fa. L’ostetrica non si capacita del tempismo di questo bambino, che pare aver intuito che la sua ginecologa ha un treno da prendere e una casa lontana che la aspetta.
Sara è sdraiata sul lettino, le mani del compagno sulle sue spalle, come a spingere con lei ad ogni contrazione. Nemmeno la peridurale mi hai fatto fare! mi rimprovera, sorridendo. Non urla, non si lamenta. Spinge, con ogni fibra di ogni suo muscolo. La testa del bambino affiora ad ogni spinta, poi la contrazione passa e la testa si ritrae.
Sedici e cinque.
Quanto ci metto ad arrivare alla stazione da qui?
Se lanci il camice e inizi a correre, mezz’ora.
Ho ancora venti minuti, allora.
Sara spinge, silenziosa.
Non mi ricordo come lo chiamerete…
Non te lo ricordi perché non l'abbiamo ancora deciso.
Ecco perché non nasce: non sa come si chiama!
Sono indecisi tra Marco e Samuele interviene Eleonora, l’ostetrica.
Chiamatelo Samuele!
Sara non è convinta.
Allora dategli un doppio nome!
L’ostetrica non approva la scelta del doppio nome. Il papà neppure.
Eravamo entrambi d’accordo con Paolo, ma è il nome dello zio.
E allora Marco Paolo! Insisto sul doppio nome.
Marco Paolo è orribile… Chiamiamolo Samuele!
Sara, spingi! Dai, Samuele!
Dai, Marco Paolo!
Sara spinge, silenziosa, Marco Paolo Samuele si ritrae. Non è sicuro di voler venire al mondo proprio ora.
Sedici e venticinque.
Samuele, hai cinque minuti per nascere prima che la dottoressa vada via!
Marco Paolo accetta la sfida. La nuca affiora, si affaccia al mondo. Sara prende fiato, spinge, non ce la faccio più, sussurra con un filo di voce. La testa è fuori, allungata come un siluro dal passaggio attraverso il bacino della sua mamma. Un’altra spinta ed è fuori. Eleonora lo accompagna, due guanti gentili, verso il seno di Sara.
Eleonora, aspetta, guarda!
Che c’è?
Che c’è?
Che c’è?
C’è che il bambino senza nome è un bambino fortunato. Perché il suo cordone si era arrotolato in un nodo come quello che si fa alla cima di una barca o al laccio di un pacco. E sarebbe bastato poco perché nelle quattro settimane che gli mancavano ancora da trascorrere all’interno della sua mamma quel nodo si stringesse un poco di più, impedendogli per sempre di respirare.
E invece il sacco di Marco Paolo Samuele si è rotto, in uno scroscio d’acqua tra le lenzuola del lettone dei suoi genitori, e il bambino con troppi nomi ha deciso di venire al mondo proprio oggi, tre giorni dopo la partenza di suo nonno. Ed ora so perché quel travaglio è partito troppo presto, perché quel sacco ha avuto tanta fretta di rompersi. Ora so che lì fuori c’è un nonno, un papà, che ha voluto salvare la gioia di sua figlia e la vita di suo nipote, partendo per sempre prima di conoscerlo.
Getto il camice nello spogliatoio ed esco correndo dall’uscita laterale, verso il treno che chiuderà le sue porte tra venti minuti. Ma anche se lo perdo, non importa. Tra la folla della metro che mi porta alla stazione, il pensiero vola sopra tutte quelle teste sconosciute, per arrivare in quel luogo verso cui partono tutti i nonni. Dove trovano rifugio dalle medicine da spezzare al mattino, dalla vita che scorre veloce e dalle ossa che scrocchiano e stridono. E lì trovo i miei nonni, e chiedo a loro quante volte hanno salvato la mia, di vita.
Squilla il telefono, è mio padre: Sei già sul treno?
No, papà, ma ho assistito a un miracolo!
Articolo tratto dal magazine Blister, storie dal Policlinico per curare l'attesa