15/06 2020
Salute

Il tempo di essere mamma non si ferma, neanche con la pandemia

— di Federica Bonalumi

 

Una volta iniziato, il percorso di essere mamma ha un tempo solo suo. 

Imprevedibile, non si interessa di tutto ciò che succede “là fuori”. L’unica certezza è che non si può tornare indietro, non ci si può mettere in pausa e aspettare che arrivi un momento migliore, nemmeno quando lungo la strada ci si imbatte in una pandemia.

 

Come è successo a Giulia, 24 anni alle prese con i suoi primi nove mesi di attesa. 

Una storia che sembra essere destinata ad avere un lieto fine. Tutto comincia bene e procede al meglio: 7 mesi vissuti con serenità e trepidazione, finché alla 36esima settimana Giulia scopre di essere positiva al Coronavirus e di avere una leggera polmonite. Siamo ad Aprile 2020, durante il boom dell’infezione da Covid19. In quei giorni a casa di Giulia piangevano tutti, ma con una sincronia perfetta le acque le si rompono il giorno in cui riceve l’esito del secondo tampone: negativo. Il suo primo pensiero? Posso abbracciare il mio bambino. 

 

Quella di Giulia è una storia a lieto fine ma non è stato così per tutte le mamme. Alla Clinica Mangiagalli sono passate tante storie in questi mesi, più o meno travagliate. Tutte con un elemento in comune: le ostetriche, gli infermieri e i medici che con la loro forza hanno continuato a rendere la nascita un momento di gioia, nonostante la paura del virus.

“Noi sapevamo che mentre qui nascevano bambini, nelle nostre stesse rianimazioni del Policlinico morivano delle persone. C’è sempre un collegamento tra la nascita e la morte, sono due eventi sacri”, racconta Irene Spreafico, coordinatrice della sala parto della Clinica Mangiagalli che, insieme alle sue colleghe, ha vissuto nei mesi dell’emergenza il contrasto di far nascere una nuova vita mentre intorno a loro molte persone morivano. Un ciclo che iniziava e finiva all’interno delle stesse mura.

Come racconta Cristina Corti, ostetrica della Clinica Mangiagalli, è proprio al Policlinico di Milano che, due giorni dopo lo scoppio dell’emergenza, è nata l’idea di creare un’area isolata per le partorienti. Un hub per la maternità per proteggere le mamme e dare speranza mentre ogni cosa veniva stravolta dal virus, anche quelle apparentemente più naturali come la gioia di un padre di tenere la mano alla propria compagna e stringere tra le braccia il proprio bimbo appena nato.

“Volevo essere presente alla nascita di mio figlio, non potevo permettere che un virus mi impedisse questo momento magico – racconta un neo-papà -. E così sono rimasto in macchina, fuori dalla Mangiagalli, e con il telefonino mi sono collegato alla sala parto. Ho visto mio figlio nascere su Skype, dallo schermo ho guardato mia moglie e abbiamo pianto insieme”.

Vivere la nascita come un evento di speranza e positività, oltre a cercare di lasciare un ricordo meraviglioso di questo giorno in un momento tanto spaventoso. Questa è la nuova missione che in questi mesi si aggiunge a quella quotidiana delle ostetriche della Mangiagalli: “Vediamo tante donne aggrapparsi ai nostri occhi, che sono l’unica parte del volto non coperta dalla mascherina. Hanno paura e non hanno il conforto del papà del bambino e dei propri cari. Noi facciamo di tutto per loro”.
 

In questi mesi medici e infermieri si sono impegnati a dare forma a una protezione, non solo sanitaria ma anche emotiva. Tante sono state le mamme arrivate positive al Coronavirus e sintomatiche che, dopo la nascita del bambino, sono dovute andare in rianimazione per un supporto ventilatorio. La mamma era in rianimazione, il bambino in terapia intensiva e il papà a casa. Una situazione di vita con una  forte limitazione di relazioni familiari. 

La paura e la solitudine unite però alla gioia di un momento sacro come la nascita sono i sentimenti che si respirano in questo nuovo modo di nascere. A tenere alto il morale ci pensano però le ostetriche che, in un quotidiano fatto di grande fatica, garantiscono anche ciò che potrebbe sembrare superfluo: fare videochiamate con i parenti a casa e scattare foto; insomma, avvicinare le barriere imposte dal virus.