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03/05 2018
Cultura

E allora ci avrebbe pensato lui (E alüra gh' avarìa pensàa lü)

— Claudio Cogliati, Consigliere Policlinico di Milano, ex presidente Pio Albergo Trivulzio e Marco Zanobio, Comitato Amici del Trivulzio

   Quella sera di metà Maggio 1763 il principe Antonio Tolomeo Trivulzio non riusciva a prender sonno. Troppi pensieri e immagini si affollavano nella sua mente, e una sola piccola consolazione. Tra le bottiglie custodite nella parte più segreta della sua cantina, in contrada della Signora a Milano, vicino alla Ca' Granda, riposava una partita speciale, vin di Spagna del 1758, liquoroso e amabile.
   Di lì a poco, il 22 Maggio, avrebbe compiuto 71 anni. Voleva stupire i non molti invitati alla sua festa con cibi veramente particolari e con quelle bottiglie speciali. A Milano tutti sapevano della sua raffinata attenzione alla buona cucina, ai preziosi vini, ai quadri e ai suoi libri, tra cui nascondeva quelli francesi, proibiti, degli Illuministi, messi all’Indice dai Gesuiti. Aveva studiato nel loro collegio ma li sfidava, spinto dalla sua curiosità e dal mai spento desiderio di conoscere. Curioso, esteta, raffinato, intelligente ma prudente e attento alle forme, il principe Trivulzio (che già stava preparando il suo testamento) aveva disposto che certi volumi della sua biblioteca venissero bruciati, non appena chiusi gli occhi per l’ultima volta.

   Erano passati 12 anni da quando si era ufficialmente separato da Maria Archinto, presa in sposa nel lontano 1718. Lui, principe ventiseienne, si innamorò e sposò la giovane vedova del marchese Carlo Giorgio Clerici morto in manovre belliche. Lei, madre di un bimbo di 3 anni, era affascinante quanto bastava per far invaghire quasi perdutamente Montesquieu, dieci anni più tardi. Il grande illuminista non aveva mai nascosto il suo particolare interesse per la moglie del principe, e durante un soggiorno a Milano frequentò la loro casa descrivendone la squisita accoglienza. Trivulzio non seppe mai se la moglie ricambiava tanta attenzione. Il loro matrimonio nel tempo si era pian piano logorato. Dopo la morte prematura della giovane figlia Maria Lucrezia e il dolore per la successiva morte del figlio maschio ancora in fasce, la loro già non felice unione si era definitivamente incrinata.

   Il principe camminava irrequieto nel suo giardino, e guardava le cupe acque del Naviglio cercando di scacciare quei ricordi che lo avevano duramente provato. Sperava che quel vino di Spagna fosse di aiuto, ma troppi erano i suoi pensieri e non riusciva a darsi pace. La solitudine, il trascorrere degli anni, le continue beghe amministrative per le proprietà con i parenti, il patriziato milanese di cui non amava le posizioni di corto respiro: tutto lo angustiava, quella notte. Ma ciò che nella sua memoria ossessivamente si riaffacciava era quell’immagine vista dalla carrozza nella tarda mattinata, proprio al Verziere, a due passi da casa. Il mercato era da poco terminato e tanti, tantissimi anziani, in particolare donne, una folla di poveri vecchi ormai incapaci di procurarsi da vivere col proprio lavoro, rovistava tra gli scarti delle vendite alla ricerca di qualcosa con cui sopravvivere.

   Improvvisamente udì i rumori di un carro funebre che passava poco più in là, sul Ponte dei poveri, quello della Ca' Granda, che ormai tutti i milanesi chiamavano Ponte dei funerali. Sapeva bene che solo i poveri passavano di lì per l’ultimo viaggio. I ricchi attraversavano il grande cortile di rappresentanza dell’Ospedale e poi la nuova grande porta del Richini, bella, con le statue dei santi Carlo e Ambrogio tanto cari ai milanesi, e più in alto quelle dell’Arcangelo e di Maria Annunziata.

   Due mesi prima, il 25 di Marzo, come da secolare tradizione, si era svolta la Festa del Perdono. I milanesi erano stati come sempre generosi nelle donazioni al loro Venerando Ospedale Maggiore, che tutti chiamavano Ca' Granda. Il principe aveva iniziato già allora a predisporre un testamento e avrebbe voluto lasciare una parte consistente dei suoi averi per il bene pubblico. Quella tiepida notte di Maggio lo spinse al passo definitivo. Aveva ancora negli occhi le immagini delle povere vecchie, degli storpi e dei miseri al Verziere. Sapeva che Milano aveva attenzione per i neonati al brefotrofio della Ca' Granda, e che al convento della Stella in porta Vercellina trovavano accoglienza le orfane (I Stelinn, le chiamavano), così come i bimbi (I Martinitt) al convento voluto da quel sant’uomo dell’Emiliani alla chiesa di San Martino. Ma dei vecchi e delle vecchie di Milano che non riuscivano più a lavorare o perdevano il coniuge o erano, per malattia o incidenti, incapaci di sostentarsi, nessuno fino ad allora si era preoccupato. E allora ci avrebbe pensato lui.

   Pensò anche alla Ca' Granda, e nel testamento avrebbe inserito la clausola che, qualora non fosse stato rispettato fino in fondo il suo volere, tutto sarebbe finito al Venerando Ospedale Maggiore.

   Quella sera scrisse nel suo cuore che i suoi beni sarebbero serviti anche per trasformare la sua residenza in contrada della Signora in un luogo pio laicale dedicato alla presa in cura delle ultime e degli ultimi tra i suoi concittadini. Di lì a pochi anni fu aperto il Pio Albergo Trivulzio.

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