La lama nella testa e la cura: viaggio di Paola tra l’aneurisma e la rinascita
— Paola Iuorio
Di fronte all’aneurisma cerebrale, una giovane donna e un’équipe del Policlinico di Milano scelgono conoscenza, coraggio e precisione. Il racconto intreccia la voce di Paola e lo sguardo clinico di Giorgio Conte, neuroradiologo interventista, responsabile della Neuroradiologia Interventistica del Policlinico di Milano.
Quando Paola entra in Neuroradiologia il 26 gennaio ha l’aria di chi deve togliersi un pensiero. «Vengo, faccio la risonanza e alle dodici sono in ufficio», dice alla collega. L’impegnativa parla di familiarità: anni prima sua madre, sessant’anni tondi, si era accasciata in cucina con una cefalea che lei stessa definì “non normale”. In pronto soccorso la diagnosi fu lapidaria: emorragia subaracnoidea, la conseguenza della rottura di un aneurisma cerebrale. La madre passò mesi tra rianimazione e riabilitazione; ne uscì più fragile nella memoria, ma viva. Da allora, controlli. E un monito silenzioso che si deposita nelle pieghe della famiglia.
Paola però non ha mai avuto mal di testa “diversi”, non fuma, insegna, corre tra lezioni e una vita che cerca di allargarsi. Con il compagno prova ad avere un figlio. La natura, però, le restituisce una sequenza spietata di inizi e di fini: gravidanze che si accendono e si spengono, quattro in due anni. I medici le aprono la strada della procreazione medicalmente assistita (PMA), disegnano protocolli, spiegano probabilità e limiti. Paola studia, resiste, si prepara a un nuovo pick up ovocitario in febbraio. Poi, quella mattina di fine gennaio, la risonanza magnetica dell’encefalo per familiarità di aneurisma cerebrale. Il tecnico la aiuta ad alzarsi, le chiede con delicatezza se abbia mai avuto sintomi. Lei capisce che qualcosa non torna. Arriva la dottoressa: «È un aneurisma». Paola, che nel frattempo ha letto abbastanza da sfiorare una laurea immaginaria, fa una sola domanda: quanto è grande?
Otto millimetri, abbastanza da non poter essere ignorato, spiega Giorgio Conte. «Un aneurisma è una dilatazione della parete di un’arteria cerebrale, una sacca dove il sangue circola. La maggior parte sono millimetrici e non li tocchiamo; ma sopra i 6-7 millimetri circa, e se la sede o la storia familiare lo suggeriscono, il trattamento entra in gioco. Non per riflesso, per equilibrio: misuriamo il rischio naturale della rottura e lo confrontiamo con il rischio dell’intervento. Interveniamo quando il beneficio supera chiaramente il pericolo.»
Rottura: una parola che, accostata al cervello, pesa. «La rottura provoca l’emorragia subaracnoidea», continua Conte. «È un evento duro: un terzo dei pazienti muore sul colpo; un terzo sopravvive con disabilità; un terzo torna a vita normale. Il nostro lavoro è evitare che quel dado venga lanciato.» E poiché la maggior parte degli aneurismi non avvisa — la cosiddetta “cefalea a rombo di tuono” arriva spesso solo al momento della rottura — la diagnosi, quando c’è, è spesso un incidente fortunato: un controllo, un’immagine, una scelta da compiere.
Paola quella scelta la fa a pochi giorni dalla risonanza. Siede di fronte ai medici della Neuroradiologia Interventistica del Policlinico di Milano e mette sul tavolo la sua doppia partita: la testa e il grembo. La PMA è fissata per il 6 febbraio; l’équipe di neuroradiologia le propone invece un altro tipo di appuntamento. «Nel novanta per cento dei casi oggi trattiamo per via endovascolare», spiega Conte. «Non apriamo il cranio: entriamo dall’inguine o dal braccio con microcateteri, ci facciamo guidare dai raggi X e usiamo dispositivi diversi a seconda dell’anatomia. Spirali metalliche che riempiono la sacca, stent che deviano il flusso e “spengono” l’aneurisma, piccoli ombrellini. Sono strumenti diversi per una sola idea: isolare quella sacca dalla circolazione, guarendo l’arteria malata.»
Il 6 febbraio, al posto del pick up, Paola entra in sala angiografica. La musica è bassa, le parole sono chiare. L’équipe decide per una combinazione: uno stent “a diversione di flusso” nella carotide intracranica e riempimento della sacca con spirali di metallo. Il sangue, deviato, smette di nutrire l’aneurisma; all’interno si forma un coagulo stabile, la parete si riorganizza. «È un lavoro di precisione, ma il beneficio è anche nei tempi», dice Conte. «La degenza media è 24–48 ore. La ripresa è rapida. Non è una gara contro il dolore, è un ritorno programmato alla normalità.»
Il giorno dopo, 7 febbraio, Paola è a casa. Un po’ di mal di testa, paracetamolo e riposo. Per un mese doppia antiaggregazione, poi solo aspirina. «Avevo paura. Ma avevo anche risposte», racconta. «Mi sono sentita guardata negli occhi. La parte difficile non è stata il catetere, ma l’ignoto: la parola aneurisma».
La primavera porta prudenza e qualche sorriso. La PMA, per i tempi dei farmaci e dell’aspirina, slitta. A giugno, senza annunci, la vita fa di testa sua. «Sono rimasta incinta», dice Paola quasi sottovoce, come se la parola potesse spaventare la buona sorte. Non lo dice a molti. Resta in città, rinuncia alle foto al mare, aspetta che qualcosa — per la prima volta — non accada. Ad agosto, l’ecografia traduce l’attesa in un battito. La risonanza di controllo, intanto, conferma ciò che l’angiografia aveva disegnato: l’aneurisma è escluso dal circolo sanguigno, la strada di sangue non passa più lì. «Le dissi, scherzando ma non troppo, che poteva anche fare bungee jumping», sorride Conte. «Meglio di no, aggiunsi da medico.»
In queste storie, spesso, la medicina deve farsi anche "grammatica". Lo sa chi legge i numeri e conosce le parole. «Non esiste una tecnica migliore in assoluto», precisa il dottore. «Esiste la tecnica giusta per quel paziente: età, sede, forma dell’aneurisma, comorbidità. A volte la chirurgia a cielo aperto — la craniotomia con clip — è la scelta più solida. Altre volte l’endovascolare garantisce efficacia e minor impatto. Decidiamo in équipe, insieme ai neurochirurghi e agli anestesisti, e decidiamo con il paziente, che è l’unico proprietario del suo rischio.»
C’è un passaggio che la storia di Paola rende nitido: lo screening familiare. La madre ha avuto un’emorragia, la figlia un aneurisma non rotto scoperto per caso. È la prova che dovremmo controllare tutti i parenti? «No», avverte Conte. «Le forme familiari esistono ma sono rare. Non ha senso sottoporre intere famiglie a risonanze “per paura”. Ha senso ragionare quando in una stessa famiglia si sommano più eventi, quando l’età è giovane, quando la clinica lo suggerisce. La medicina non è un metal detector indiscriminato, è una bussola.»
L’autunno arriva con un bambino nato un po’ prima del tempo e una madre che ha attraversato un tempo lunghissimo. «Ho perso e ho ritrovato», dice Paola. «Ho visto mia madre rientrare in casa diversa, con i capelli bianchi sotto un cappello di lana; ho creduto di non essere fatta per portare una vita; mi sono sentita fragile come vetro. Oggi so che la fragilità può diventare una forma di forza quando la si affida alle mani giuste e quando qualcuno ti spiega, senza infantilismi, quello che sta succedendo.»
Conte chiude il fascicolo, ma non la storia. «Stimiamo che molte persone possano avere un aneurisma senza saperlo, eppure solo una minoranza si romperà. Il nostro compito non è “operare aneurismi”, è proteggere persone: scegliere quando intervenire e quando osservare, curare l’aneurisma giusto, al momento giusto, con il rischio più basso. È questo che chiamiamo cura.»
Tra i neon di un reparto e il silenzio di una sala angiografica, la medicina che funziona spesso assomiglia a una conversazione riuscita: domande che trovano risposte, paure che trovano parole, numeri che trovano volti. Paola stringe suo figlio e sorride. La sua storia non è un miracolo: è la somma di scienza, attenzione e tenacia. A volte basta, ed è già moltissimo.