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07/05 2019
Attualità Salute

Dove finisco io? Dove inizi tu?

— Marina Lauro

 La distanza e lo spazio interpersonale nella relazione di aiuto

La distanza tra casa mia e la stazione ferroviaria, la distanza tra l'ingresso del Policlinico e i suoi Padiglioni, la distanza tra cucina e infermeria in reparto, la distanza tra me e le mie colleghe: sono tutte le distanze che ho imparato con il tempo a calcolare, quelle distanze che hanno caratterizzato e che caratterizzano il lavoro di ogni giorno.
Ma esiste una distanza che non può essere calcolata, che non è automatica, e che a volte può coglierti davvero impreparato: la distanza tra operatore e paziente.

Esiste una giusta distanza? Qual è lo spazio interpersonale corretto? Di che cosa stiamo parlando, di spazio fisico? Di spazio immaginario?
Da amici ci si può stringere la mano e abbracciarsi, tra innamorati ci si può fondere in un corpo solo. Ma in una relazione di aiuto, qual è la distanza corretta?


Assertività. Secondo Carl Roger, psicologo e umanista, questa è una delle caratteristiche principali che non può mancare in una relazione di aiuto, quando l'obiettivo è prendersi cura di una persona. Essere assertivi è la capacità di mettersi nei panni dell'altro, comprenderlo, capirlo, ma poi prenderne le giuste distanze per poter essere obiettivi nella relazione. Per poter essere empatici al punto giusto.
Ma quali sono le giuste distanze? Troppo vicino? Troppo lontano?
Si studia Legislazione sanitaria, Anatomia, Farmacia, Elementi di igiene di base e di assistenza: tutte materie che permettono di costruire dentro di sé un’immagine del 'paziente immaginario', con caratteristiche e storie diverse e colorate. Ma è solo l'esperienza e il contatto diretto che creano l’opportunità di dare un nome e un cognome ad ogni singolo paziente, trasformando tutto in reale, ciascuno con una propria storia carica di bisogni.

Smarrimento, paura, voglia di fare, paura di sbagliare: queste le sensazioni che caratterizzano inizialmente il percorso lavorativo di chi assiste un malato.
Vicino, ma non troppo: questo il mio mantra. Stare accanto al paziente, senza confondersi con lui.
Parametri vitali, vitto, rifacimento letti, igiene, collaborazione con infermieri: e lì, nel mezzo, tra le due correnti, finalmente lo incontri... il tuo paziente, vero, con emozioni, con la sua storia, ma soprattutto con le sue paure.
Dove finisce lui e dove inizi tu? Di chi sono quelle paure che senti? Non è facile farsene carico, ma ci si può riuscire.
Qual è il segreto? Quando possiamo parlare di una buona assistenza? Credo sia quando sai stare nel 'qui ed ora': nell'adesso.
Rispondere al bisogno del paziente partendo dal bisogno reale, senza farsi angosciare dal dopo; iniziare a fare del bene oggi, nell'immediato, e vedere come va. Ciò non vuol dire non avere progettualità; significa guardare ogni bisogno per quello che è.
Un buon operatore è colui che accoglie senza prenderne il peso, colui che accompagna senza sostituirsi, colui che ascolta senza parlare per l'altro. Bisogna tenere sempre a mente il confine.
E ti ripeti il tuo mantra: vicino, ma non troppo.
La formazione e l'esperienza da sole però non bastano. All'assertività, all'empatia e alla giusta risposta del bisogno serve aggiungere l'ingrediente quasi principale: il confronto e il dialogo con i colleghi. Che poi è il vero segreto per stare in una relazione di aiuto in maniera professionale.
Il gruppo di lavoro può essere, se funziona bene, un 'treno' capace di tenere gli operatori ognuno nel proprio vagone: ciascuno ha le proprie competenze, aspettative e ambizioni, e allo stesso tempo si viaggia tutti sullo stesso binario, con la stessa direzione: quella di una buona assistenza. Dove la distanza - che non è quella di sicurezza - rappresenta la lente per guardare con mente e cuore la realtà.

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