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18/12 2019

Ricordati di me. Storia d'amore su Tela (da I Tesori della Ca' Granda)

— di Valentina Regonesi

“Addio mia cara Felicita. A te rendo ancora grazie infinite per la tanto affettuosa compagnia e premurosa assistenza, che ti sei compiaciuta mantenermi negli anni di nostra felice unione col figlio nostro, nel quale avevamo così meritatamente riposta la nostra compiacenza ed i più ridenti pronostici d’un ridente avvenire, rapito così immaturamente al nostro affetto; compiacciati rammentare benignamente anche il tuo Leopoldo che ti ha tanto amata.”

E' una lettera dolce e piena d’amore, così come di struggente tristezza, quella che il nobile Leopoldo Pierd’houy scrive nel 1888 all’amata moglie Felicita nelle sue disposizioni testamentarie: a lei lascia tutti i suoi beni “come ultimo tributo di affetto e di stima”.
Lei che lo aveva accompagnato tutta una vita, prodigandosi in opere di beneficenza e assistendolo nella malattia che lo aveva colpito.
È un addio alla vita ma anche alle sofferenze, giacché Leopoldo non si era mai ripreso dalla morte prematura del figlio Augusto, e nonostante le numerose beneficenze elargite in suo nome, il dolore della perdita non si era mai attutito.
Il figlio Augusto fu un noto medico oculista dell’Ospedale Maggiore (oggi Policlinico di Milano), dove arrivò dopo aver condotto studi e specializzazioni in Austria e in Germania. A lui si attribuisce una stravagante e azzardata operazione chirurgica in cui un occhio divenuto ormai cieco viene sostituito non con una piccola sfera di vetro, bensì con un occhio di coniglio, il quale “facendo presa sui tessuti dell’orbita vuota, dava l’illusione di un occhio vero, mobile, vivo”.
La storia non ci racconta come fu la qualità di vita di chi subì questa operazione, ma Augusto Pierd’houy venne sempre considerato come un abile chirurgo e un importante ricercatore, autore di numerosi articoli scientifici sulle patologie dell’occhio, come la congiuntivite granulosa, la paracentesi corneale e la cecità. Morì a soli 35 anni di febbre tifoide, dopo alcuni viaggi estenuanti di lavoro a Mantova e a Sondrio, dove era stato chiamato con urgenza per esercitare le sue capacità chirurgiche.
Anche per lui, così come per il padre Leopoldo e la madre Felicita, giungono a noi parole di grande stima e affetto, che descrivono questa famiglia nobile non solo per censo, gentile e premurosa verso gli altri, dedita alla beneficenza e all’attenzione verso i poveri.
Padre, madre e figlio lasciarono somme cospicue a numerosi enti di beneficenza, e in particolare all’Ospedale Maggiore, che li onorò con tre ritratti eseguiti da Giovanni Beltrami: Augusto nel fiore degli anni, all’apice della carriera medica; Felicita in abito nero su uno sfondo freddo, sul viso tristezza e rassegnazione; Leopoldo alla scrivania, in veste da camera, con in mano una copia di La Perseveranza, e lo sguardo mesto rivolto al busto del figlio defunto.


La Quadreria dei Benefattori
La tradizione di eseguire un ritratto per i Benefattori risale agli inizi del Seicento. L’Ospedale Maggiore, sin dalla sua fondazione nel 1456, ha sempre beneficiato di generose donazioni da parte dei cittadini milanesi, sia persone comuni, sia nobili o ricchi commercianti. Per loro, in segno di ringraziamento, ma anche per stimolare nuove donazioni, l’Ospedale ha iniziato nel 1603 a realizzare un ritratto gratulatorio, la cui esecuzione è sempre stata affidata agli artisti più in vista o promettenti sul territorio lombardo. È nata così la “Quadreria dei Benefattori della Ca’ Granda”, che oggi conta 910 ritratti e che costituisce un unicum a livello nazionale. Da marzo 2019 è aperta al pubblico la mostra permanente “I Tesori della Ca’ Granda” dove è possibile vedere alcuni dei capolavori pittorici della Quadreria

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Tratto da Blister, il magazine del Policlinico per curare l'attesa